Congedo definitivamente il 2010, riproponendo il mio pezzo migliore dell'anno, pubblicato su Max di giugno.
Il New York Times del 6 giugno ’77 non aveva esitato a definirlo “l’uomo destinato a rimpiazzare Pelé”. Non è Cruyff, Platini, Kempes o chiunque altro di quell’epoca possiate considerare degno, perciò non perdete tempo: tanto Jomo Sono non lo conoscete.
Eppure, nella follia di quel titolo, c’era l’intuizione verso un uomo che al calcio avrebbe dato molto di più della sua fama. Che qui è praticamente nulla, ma che nel 2004 gli è valsa il 49simo posto nella Top 100 degli uomini più influenti del Paese, organizzata dalla tv di Stato sudafricana. Un risultato che avrà fatto rodere d’invidia il numero 73, il tycoon sudafricano Kaizer Motaung.
Perché il loro è un derby calcistico, ma lo è soprattutto di fama, mito e potere. Una sfida cominciata sui polverosi campi di Soweto, rimbalzata nelle arene della NASL (North America Soccer League), esplosa nella Premier Soccer League sudafricana e che ora rischia di riflettersi anche sul Mondiale.
Nei tardi anni ’60 Motaung era una stellina degli Orlando Pirates, la più celebre squadra della township di Johannesburg. Un team che, nonostante la ferocia dell’apartheid, aveva guizzi di insospettabile glamour: tanto per dirne uno, lo stemma col Jolly Roger, teschio e tibie incrociate, era un tributo hollywoodiano ai bucanieri di Errol Flynn.
A quell’epoca essere un calciatore di successo era l’unica via di realizzazione per la popolazione nera. Ma Kaizer, di nome e di fatto, pensava già in grande e quando nel 1968 gli Atlanta Chiefs pensarono di creare un team tutto di stranieri (con 40 anni d’anticipo su Inter e Arsenal), lo adocchiarono durante un trial in Zambia. Quello stesso anno gli Atlanta Chiefs vinsero il campionato, grazie al loro nuovo capocannoniere sudafricano.
Tuttavia Kaizer non tagliò il cordone ombelicale con i Pirates e anzi, come un David Beckham ante litteram, cominciò a fare su e giù, alternando le stagioni calcistiche da un continente all’altro, fino a quando nel 1971 ritenne giunto il momento di non dipendere più da nessuno e fondò a Johannesburg i Kaizer Chiefs, a cui impose lo stesso logo della squadra di Atlanta. Col risultato che sui campi del Sudafrica cominciò a scorrazzare un manipolo di giovanotti vestiti di giallo con stampato sul petto un capo indiano, con copricapo pennuto.
Per Motaung il calcio è sempre stato uno strumento e in quell’ottica va letta una delle sue azioni politicamente più elevate: l’ingaggio nel ’79 del veterano “Lucky” Stylianou, primo bianco a giocare nella Lega dei neri. Un atto quasi sovversivo.
D’altronde, in Sudafrica il calcio non è mai stato solo uno sport. Nel caso dei Kaizer Chiefs è talmente evidente che il suo fascino tracima: l’omonima rock band indie inglese è un tributo al capitano del Leeds United Lucas Radebe, cresciuto proprio nella squadra di Motaung.
Calcio, politica, affari: tutto il mondo è paese, ma in Sudafrica forse di più. Pur giocando in casa nel nuovissimo Soccer City (sede il prossimo mese della finale mondiale), i Kaizer Chiefs hanno voluto erigere uno stadio di proprietà e in questi giorni s’inaugura a Krugersdorp, a una quarantina di chilometri da Johannesburg, lo stadio Amakhosi (ovvero, “chiefs” in zulu), 55 mila posti e 195 “executive suites”, senza neppure essere tra gli impianti della Coppa del mondo. Per il Presidente un altro diluvio di rand.
Si sarà capito che Motaung ha sfruttato appieno la sua fortuna sportiva e oggi è innanzi tutto un facoltoso uomo d’affari ben diversificati, con inevitabile proiezione sul controllo dei media.
Dobbiamo aspettarci un futuro in politica? Non è da escludere, ma se accadrà dovrà rinnovare anche lì il derby personale con chi ha fatto tutto come lui, però meglio.
Giusto per cominciare anche la storia di Jomo Sono parte da Soweto e proprio negli Orlando Pirates, dieci anni dopo Kaizer. E dieci anni dopo, nel 1979, pure lui attraversa l’oceano per approdare nella NASL. Però, tanto per far mettere in chiaro le differenze, Somo si ritrova in campo direttamente con O’Rey. Qui la storia si fa nebulosa, perché gli annali della defunta Lega (soppiantata nel ’93 dalla MLS) sono farraginosi.
Secondo gli storici del soccer, però, Sono avrebbe giocato con Pelé non più di qualche settimana, per essere poi spedito ai Toronto Blizzard, dove rimase fino all’82 e per poco non s’incrociò con Roberto Bettega, che giunse la stagione dopo. Da sempre abile nella gestione di se stesso, questo dettaglio è trascurato nella biografia ufficiale.
Però forse è davvero ininfluente, perché ciò che conta è che l’essere una delle prime e più sfolgoranti celebrità nere sudafricane contribuì a scardinare dalle fondamenta gli atroci preconcetti segregazionisti. Con Kaizer Motaung, fu una delle prime prove viventi che i neri potevano scalare gli odiosi ostacoli sociali imposti dal regime. Non va inoltre trascurato che Jomo ebbe la concreta opportunità di ottenere asilo dagli Usa, ma vi rinunciò. Ufficialmente per tornare ad aiutare l’amato nonno alla pompa di carburante (un modo per versare benzina anche proprio sul mito), ma di fatto per realizzare il suo desiderio più grande: sfruttare la sua fortuna per aiutare i ragazzi di Soweto.
Fu così che, esattamente come Motaung, per un certo periodo si dedicò al pendolarismo calcistico tra Sudafrica, Canada e Colorado riuscendo poi ad acquistare un club tutto suo nella Lega sudafricana. Se Motaung aveva i Kaizer Chiefs, lui s’inventò un colpo di teatro ancora più roboante: acquisì il più famoso club “bianco”, l’Highland Park, e lo ribattezzò Jomo Cosmos. Imponendo, manco a dirlo, il logo della squadra di New York (comunque assai più sobrio del capo indiano di Kaizer).
Nel 1987 vinse il campionato e anche Somo trovò nel calcio uno straordinario volano per i suoi business. Da quelli del tutto lontani dal calcio, come l’apertura del primo Kentucky Fried Chicken in Sudafrica, alla scalata ai vertici della SAFA, la South African Football Association, alla scoperta di talenti da spedire in Europa. Qualcuno pure da noi, come Philemon Masinga (Bari e Fiorentina) e Mark Fish (Lazio).
Sia come sia, Jomo Sono oggi è considerato il talento più luminoso della storia calcistica sudafricana ed è lui che in panchina ha portato i Bafana Bafana al primo e finora unico scintillìo internazionale: la finale di Coppa d’Africa ’98, la prima giocata dopo la caduta del regime segregazionista. Per molti analisti è soprattutto per merito suo e delle sue forti credenziali (anche nel settore del petrolio) se stiamo per assistere al primo Mondiale nel continente africano.
Tuttavia il derby Sono-Motaung ha regalato al Sudafrica molti altri, veri vincitori: le migliaia di ragazzi che a Soweto hanno potuto trovare riscatto giocando a calcio. O addirittura, citando Tony Karon, celebre blogger di Città del Capo, coloro che dal calcio hanno trovato la forza per combattere l’apartheid stesso: «Le prime celebrità nere che hanno saputo usare il loro talento per arricchirsi fino ad acquistare un club fu la negazione della versione segregazionista secondo cui l’identità nera non avrebbe saputo elevarsi dalla condizione tribale e rurale. Loro erano “hip” e stilosi e il loro gioco parlava di libertà, creatività e potere.
Volenti o nolenti, furono modelli sociali per migliaia di ragazzi neri di città, quelli che dal ’76 in poi decisero di riprendere possesso del proprio destino».
Un destino che dall’11 giugno sarà esposto alle telecamere di tutto il mondo, che non immagina neppure di avere un debito verso due vecchie stelle del calcio americano anni ’70.
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