mercoledì 30 maggio 2012

Occhio al meteorite


Questo ennesimo scandalo del calcio mi fa orrore. E' permeato di personaggi squallidi, di bassezza morale e culturale, di mancanza di senso della realtà e della logica (ma vi pare possibile che un Premier messo lì per rilanciare l'economia se ne esce azzoppando una delle poche industrie italiane che ancora fanno girare soldi veri, come quelli televisivi?). Manca soprattutto il senso della giustizia. Ancora una volta.

Mimmo Criscito salterà un Europeo e Leo Bonucci no, a causa di interpretazioni cervellotiche di un codice etico che capisce solo Prandelli. La presunzione d'innocenza cassata a prescindere: per il c.t. Criscito è colpevole in automatico. Un abominio.

Gigi Buffon se ne esce con una banalità imbarazzante e diventa informato dei fatti. Allora, venite a prendere pure me. E con me tutti i giornalisti sportivi d'Italia. I dirigenti sportivi. Tutto il calcio professionistico. Nazionale e internazionale. Perché il «meglio due feriti che un morto» è una pratica consolidata dalla notte dei tempi.

Lo sanno tutti che, a classifica acquisita, le squadre medio-piccole cercano crediti per le stagioni successive entrando in campo senza sputare sangue. Un esempio? Chiedete al Cagliari che è sceso in campo contro il Milan e non ha mai superato la metà campo. Perché la procura federale non ha fatto una piega quando due anni fa la Lazio ha platealmente lasciato vincere l'Inter, con tanto di tifosi biancocelesti che dopo il gol di Eto'o, esponevano il celebre striscione: “Oh nooo”?

E non è che all'estero siano immuni. L'Italia a Euro 2004 fu vittima di un colossale biscottone tra Danimarca e Svezia che per passare entrambe il turno avrebbero dovuto pareggiare 2-2 e proprio quel risultato confezionarono, con le due tifoserie che cantavano “Ciao Italia, ciao”. Qualche settimana fa Rayo Vallecano e Granada si son messe addirittura d'accordo durante un calcio d'angolo, alla notizia che il Villareal stava perdendo. Su quel corner il Rayo ha segnato il gol della salvezza e in Segunda ci è finita la squadra di Giuseppe Rossi. Potrei continuare per ore, magari approfondendo la differenza tra biscotto e scommesse.

Ora, non si fraintenda, sono episodi che sportivamente mi fanno ribrezzo, ma citandoli non mi sognerei mai di trovarmi un pm all'uscio. Sembra che del solito cinese che indica la luna si continui a preferire guardare il dito. Perciò prendiamocela pure con Buffon e speriamo che il cinese stia davvero indicando la luna e non un meteorite capace di spazzare via il Pianeta Calcio.

martedì 22 maggio 2012

Una sconfitta salutare (A-Team su LaStampa.it)


Imparare a vincere è molto difficile, ma imparare a perdere lo è anche di più. La sconfitta di Roma nella finale di Coppa Italia brucia, ma non è una tragedia. Anzi, il tempo potrà raccontarci se è stata persino utile.

La stagione che ci aspetta sarà molto diversa da quella appena conclusa. Per la prima volta questa squadra sarà investita del ruolo che compete ai campioni in carica: la favorita, la squadra da battere. È un peso che se mal gestito può schiacciare. Inoltre, non dimentichiamo che la Juve di Conte finora non si era mai dovuta raffrontare con la delusione della sconfitta. È un momento di crescita che, se ben incanalato, fortifica e rende più competitivi.

Per questo, forse, è arrivata nel momento più opportuno. Non intacca minimamente una stagione trionfale e, nel contempo, mostra ai giocatori un aspetto nuovo del loro lavoro. Dopo lo scudetto Conte disse: “Voglio che festeggino, perché devono capire quanto è bello farlo, perché ne abbiano sempre voglia”. Ora hanno anche un'altra possibilità: capire quanto è brutto perdere, senza possibilità di rivincita.

Che assaporino fino in fondo questo amaro calice. Che non lo rimuovano, ma lo interiorizzino, affinché non ne vogliano più sentire il sapore. Ora si va in Champions, dove non c'è quasi mai un domani (a parte il ridicolo girone iniziale, che comunque ci vedrà in terza fascia). Ogni partita è come quella dell'Olimpico e arrivarci con la testa vuota o, peggio, piena di false consapevolezze, se non di qualche arroganza, è il modo più diretto per farsi del male.

Quindi, onore al Napoli (molto meno ai suoi beceri curvaioli) e guardiamo avanti. Magari già alla Supercoppa Italiana, dove sono convinto sarà tutta un'altra musica.

lunedì 14 maggio 2012

Tutte le volte che Alex mi ha fatto piangere

In un solo anno siamo passati da una Juventus che faceva piangere a una Juventus che ci fa piangere di commozione. Incredibile. Se davvero sono le esperienze forti che fanno crescere, ieri sono uscito dallo Stadium diverso.

Non sono mai stato un delpieriano di ferro. Lo sapete. Ma mentre lui faceva il giro di campo più trionfale che storia del calcio conosca, ho capito quanto la mia vita sia indissolubilmente intrecciata alla sua carriera. Il suo gol alla Fiorentina di 18 anni fa è vivido nella mia mente, ma quando accarezzava quel pallone che avrebbe aperto il ciclo della Juve lippiana, io non avevo neppure incontrato la donna che sarebbe diventata mia moglie. A pensarci bene, facevo pure un altro lavoro e, comunque, non scrivevo di calcio. Insomma, ero un altro e lui stava già diventando lui.

Entravo nei trenta quando lui inventava i suoi gol alla Del Piero e poi, nel giro di due anni, ci portava in cima all'Europa e al Mondo intero. Quando infilò la porta del River Plate, per colpa del fuso orario, ero in redazione, non scrivevo di sport e non c'era Internet. Ricordo come fosse ora le continue telefonate per tenermi aggiornato e il solenne giuramento dopo quell'infernale giornata: mai più avrei trascurato così la Juventus. Una delle poche promesse mantenute della mia vita. La donna che sarebbe diventata mia moglie, intanto, aveva una scrivania qualche piano più su. E stava con un altro.

Quando lui s'infortunò, l'8 novembre 1998, l'avevo conquistata (o forse lei aveva conquistato me, vallo a capire). Lei viveva a casa sua, io a casa mia. Non avremmo mai immaginato che dopo 14 anni avremmo avuto due figli e metà della vita condivisa.

Poi lui tornò, faticosamente. Sembrava non riprendersi mai da quella maledetta lesione al crociato. Fui tra quelli che ne invocavano l'accantonamento, ma mi commossi quando segnò al Bari, nel febbraio 2001, dedicando il gol al papà mancato pochi giorni prima. Mia moglie aveva già una bella pancina e portava in grembo i nostri gemelli. Dopo una vita da figlio, stavo cominciando a capire che cosa significhi essere padre.

A Manchester, prima della maledetta finale 2003, il suo manager di allora mi confidò: Alex ha sognato che vince 1-0, gol suo. Vissi tutta la partita nell'attesa di quel gol che non arrivò mai. Ma fu la molla per scrivere il mio primo libro, “Dieci scudetti per una coppa”.

Ero allo stadio quando contro il Brescia segnò il 100° gol in A e quando fece la rovesciata che permise a Trezeguet di segnare contro il Milan il gol che valse il 28° scudetto ero in uno studio televisivo. Una delle prime volte davanti alle telecamere. Sbracai letteralmente di fianco a Pierino Prati, uno che nella vita aveva provato la gioia di fare una tripletta in una finale di Coppa dei Campioni. Grazie ad Alex, mi sentii un vincente.

Intanto Capello tirava e mollava nei suoi confronti e io sentivo che la ragione mi portava dalla parte dell'allenatore, mentre il cuore continuava a grondare di delpierismo. Vederlo trattato come un giocatore qualsiasi mi feriva.

Poi arrivò la serie B. Non è necessario sottolineare che cosa significhi per uno juventino. Ero in tribuna stampa quando contro il Frosinone segnò il suo 200° gol in bianconero e quando contro il Bari giocò la cinquecentesima partita da professionista. Mio figlio, ormai in età da capire la bellezza del calcio, ricevette la sua prima maglietta col numero 10 di Alexdelpiero (tutto attaccato), con autografo. Ogni tanto la tira fuori dall'armadio e la rimira come una reliquia.

Il resto è cronaca, seppur all'ingresso del mito. Da due mesi circa il mio ragazzo mi chiede perché il Capitano debba smettere di giocare nella Juve. Ho provato a spiegarglielo, ma non sono riuscito a essere convincente. Proprio per niente. E ieri, nel giorno della sua Cresima, ha visto il Capitano, che ora è suo quanto è mio, salutare per sempre il pubblico. Anzi, il suo popolo.

Sugli spalti in tanti piangevano, anche in tribuna stampa. Il perché è presto detto: se anche dovessimo trovare un altro Del Piero domani mattina, mio figlio piangerebbe al suo ritiro con suo figlio in braccio. E io, nonnetto rincoglionito, direi al mio nipotino: “Sii fiero di essere juventino, certe leggende le vedi una volta nella vita. Anche se per me è la seconda: io ho visto Alex Del Piero”.

mercoledì 9 maggio 2012

Monta il MoVimento a Tre Stelle


Sulla sua odierna «Amaca» su La repubblica, l'interista Michele Serra si smarca dall'opinione del giornalista tifoso (perché «troppo patetica») e ci regala un quadro – a questo punto, immagino, pennellato di squisita equidistanza – sull'argomento «tre stelle».

In sintesi, argomenta lo scrittore oggi non tifoso, la Juventus può sentirsi vittima di una sentenza sbagliata e cucirsi la stellina, salvo poi la Federazione italiana, così sbugiardata, sciogliersi per manifesta inutilità. Perché il gesto, non di orgoglio ritrovato, «sconquassa dalle fondamenta le istituzioni del calcio». E Agnelli è puerile a non capirlo.

A parte che credo proprio che Agnelli lo capisca benissimo, ma ho anche la sensazione che quello che Serra definisce «un durissimo chiamarsi fuori dal mondo in cui si opera e dalle sue regole» sia esattamente il suo intento.

Il nostro calcio professionistico ha tuttora un presidente, Giancarlo Abete, che nel pieno di Calciopoli era vicepresidente e l'ha sfangata con olimpica soavità. D'altra parte, è dal 1979 che ha smesso di lavorare: prima da democristiano pluri-eletto, poi da pluri-nominato di cariche istituzionali. 

Il suo vicepresidente più giovane e rampante, è Demetrio Albertini, di cui si ricorda la buona visione di gioco, inversamente proporzionale alla lungimiranza nel gestire i tempi burrascosi dello scandalo. Nonostante una gestione sciagurata nel momento del bisogno, il calcio italiano gli permette di rimanere ancora saldamente al suo posto. Lui sarebbe il nuovo corso.

Taccio sulla Lega, dove un presidente dimissionario non può tornare ai privati affari perché non si trova un accordo per sostituirlo.

In questo allegro contesto, i conti del calcio italiano sono da crac fallimentare, le società sono alla mercé del tifo violento, gli stadi sono vuoti, le partite quando non sono vendute dai protagonisti in campo e alla scrivania sono svendute alle pay tv.

A questo calcio Andrea Agnelli dovrebbe inchinarsi, secondo il sempre più pacato Serra (ma che fine ha fatto il compianto direttore di «Cuore»?).

La Seconda Repubblica sta per essere abbattuta da un fuori quota a Cinque Stelle. Il nostro calcio ha invece la fortuna di non dover cercare fuori da sé chi lo azzererà per ricostruirlo. Ce l'ha in pancia ed è autorevole e supportato dalla maggioranza relativa (di tifosi). Perciò, la risposta a Serra è sì. Ha ragione: «Nella vita ci si può anche ribellare». E nessuno chiede il «prezzo modico di qualche titolo di giornale». Sta montando un MoVimento a Tre Stelle e fa maledettamente sul serio, disposto a pagare un conto peraltro già ampiamente saldato.

Se si arriverà fino in fondo, sarà un bene per tutto il calcio italiano, non solo per quello a strisce bianconere. Si fidi, anche l'interista Michele Serra.

Corso Galleria Ferraris 32 (e 30)

Il nuovo gonfalone in sede

giovedì 3 maggio 2012

Testa nel freezer, ragazzi! (A-Team su LaStampa.it)


Nonostante i funerali che si celebrano in ogni angolo dello Stivale, mancano solo due giornate al termine del campionato e abbiamo un punto in più. Questo significa che, sul suolo del medesimo Stivale, esiste una sola squadra che vincendo due partite è certa del trionfo. Tutte le altre no. Il resto è fuffa.

Certo, la nottata che poteva essere da sogno è finita tra gli incubi e dispiace per il modo e per il chi. Gigi Buffon non meritava una macchia così nel suo curriculum e va lavata al volo, perché in caso contrario sarà ricordata per sempre.

Tuttavia, ieri sera la Juve non ha fatto nulla per meritare di uccidere un campionato in coma. Ed è riuscita da sola a rivitalizzarlo. È caduta dove finora, forse con la sola eccezione di Cesena, aveva dimostrato risiedesse la sua vera forza: nella testa. Una partita malgestita, come male è stato digerito il tempo che passava senza raddoppiare un gol arrivato presto. Troppo campo e troppa palla sono stati concessi al Lecce in dieci. Anche i cambi non mi hanno convinto. Caceres era in serata no, Lichtsteiner è qualche settimana che sembra in debito di lucidità, eppure gli innesti non hanno riguardato le fasce. Certo, sulla sinistra doveva esserci De Ceglie, l'uomo più in forma degli ultimi tempi, ma s'è infortunato subito. Eppure un Giaccherini me lo sarei giocato almeno una mezzora. Forse è mancata lucidità anche in panchina.

Quando non si è abituati a vincere, i rischi sono questi. E chissà se questo assurdo incidente di percorso verrà ricordato come una tappa fondamentale di una crescita che è tutt'altro che compiuta. Ora Conte deve essere bravo a mettere la testa dei suoi nel freezer, ghiacciare i pensieri e tornare a pensare al campo.

Gol di Muntari, terze stelle, Verona dell'85, apertura di un ciclo, sono argomenti da spazzare e gettare nel dimenticatoio. Ora c'è un unico pensiero che deve ossessionarci: vincere a Trieste e con l'Atalanta. Poi il Milan faccia quel che vuole, che proprio non riesco a tifare per la banda stramacciona.