martedì 16 novembre 2010

Il caso di Paola e la fine del giornalismo

Il doloroso caso di Paola su Internet lo conoscono tutti (e, per chi si fosse messo solo ora all’ascolto, lo trova riassunto qui). Poteva diventare un caso in grado di favorire un dibattito sul precariato (al di là del caso specifico di Paola), invece è diventato una splendida case history sul mondo del giornalismo attuale.

La crisi dell’editoria è sotto gli occhi di tutti. Crisi da erosione di lettori, crollo della pubblicità e invasione degli altri media. Ma non solo. Il “caso Paola” ha fotografato con grande nitidezza una delle vere mine, che davvero può portare all’estinzione del giornalismo, come lo conoscevamo fino a qualche tempo fa. Ovvero, la totale perdita di percezione che il lavoro giornalistico sia un lavoro specializzato.

Un processo di degrado che, purtroppo, ha ricevuto una brusca accelerazione con lo sviluppo della Rete e degli strumenti social. Dalla nascita dei blog, fino ai network sociali più diffusi, si è diffusa l’idea che basta avere un pubblico a cui rivolgersi per essere dei (potenziali) tecnici della comunicazione. O, ancora peggio, che basta scrivere bene per essere giornalisti. Trascurando invece le prerogative più importanti: che è un mestiere etico, che comporta studio, approfondimento, tecnica, che ha un proprio linguaggio specifico, conoscenze, apprendimenti elaborati attraverso complessi processi di prova ed errore.

Il fatto grave è che è un’idea tanto forte da avere influenzato anche chi produce informazione: gli editori. Il mito del citizen journalism si è propagato a macchia d’olio e, invece, di diventare quello che in realtà è, un ausilio e uno sprone per gli operatori professionali per far meglio, ne è diventato l’alternativa secca.

Da qui, il salto definitivo: se è vero che tutti possono fare i giornalisti, perché pagare e tenere in casa dei professionisti, su cui gravano contratti onerosi e sindacati invadenti? Quanti di noi negli ultimi mesi si son sentiti dire: “Se non ti va bene fare questo, qui fuori c’è la fila di gente che vuol farlo”. Ed è vero. Non solo, è una fila disposta a tutto. A lavorare per pochi soldi, in situazione di precariato costante, senza tutela di nessun tipo sul futuro.

Perché su Internet questa è la regola. Se non ci sei tu, c’è un altro. Gratis. Io mi sono sentito dire da uno dei più grandi editori italiani, per uno dei suoi progetti di punta: “Non voglio giornalisti, mi bastano due o tre ragazzotti che scrivano, facciano le foto, video e mettano in Rete”. Ragazzotti che avrebbe trovato a casse, pagandoli come se le casse le scaricassero al mercato.

I grandi editori sono vissuti dai “tupamaros del web” come il Grande Demone, almeno finché galleggiano nel limbo dei blog e dei social network. Ma appena si apre uno spiraglio per metterci il naso dentro, accettano tutto senza porre condizioni. Per lo più però è gente abilissima a maneggiare il mezzo “tecnicamente”, ma che quasi mai ha un background giornalistico vero.

Voglio dire, l’abbiamo visto bene con Paola. Un praticante al primo mese sa che, prima di formarsi un qualsiasi giudizio, deve incrociare le fonti e, quanto meno, sentire la controparte. Sarebbe bastata una telefonata al Corriere della Sera dopo un minuto per dare alla questione una direzione totalmente diversa, evitando molti guai alla povera Paola. E, assai più probabilmente, il medesimo praticante si sarebbe fatto ispirare un approfondimento più utile e maturo. Che so, capire perché l’Associazione italiana giornalisti (l’Ordine non c’entra nulla) permette agli editori di avere in redazione tanto lavoro sommerso, oppure comprendere il ruolo delle scuole di giornalismo e il loro ruolo, non sempre cristallino, nell’accesso alla professione. O mille altri spunti, ma mai il “Io sono Paola”.

Amo il web, la mia storia lo dimostra, ma proprio per questo m'addolora che il dramma del giornalismo italiano attuale deve molto alla Rete. Non certo perché la carta verrà uccisa da Internet, ma perché troppi improvvisati figli di quest’era digitale hanno contribuito ad abbassare la soglia qualitativa della professione. E, con essa, il potere contrattuale verso gli editori.

Io sono molto preoccupato se per tutti quanti diventa normale pensare, dopo sette anni di precariato, che è più giusto fare uno sciopero della fame, piuttosto che interpellare un tribunale del lavoro.

Perché la fine dei diritti (che è ben altro rispetto al precariato) è ormai entrata sotto pelle a tutti. Nel mondo dell’editoria mai come oggi. Ed è davvero un guaio gigante, perché il fine ultimo di questo mestiere è fondamentale per una società democratica.

Ne soffro, ma devo dar ragione a chi dice che sarà Internet a uccidere il giornalismo come l'abbiamo conosciuto. Purtroppo per tutti noi, però, i motivi saranno ben altri di un uso mirabolante del digitale.

8 commenti:

  1. Nemmeno io arriverei allo sciopero della fame. Le difficoltà che si incontrano a tirar avanti 'la baracca' sono enormi. Soprattutto se rimani fedele a te stesso e ai valori in cui credi. Ho scritto oggi, sul mio blog, riferendomi ad altro: 'Quanti son disposti a pagare il giusto prezzo, sapendo che si può ottenere lo stesso alla metà'...
    Alla fine, siamo arrivati ad un punto dove la qualità non conta, l'onestà non conta e nemmeno l'essere sinceri.

    MI sforzo di pensare che prima o poi le cose cambieranno.

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  2. Quale dei tuoi tanti blog? ;-) Linkalo! Comunque, fino a ieri si era disposti a passare sopra a onestà e sincerità se c'era almeno la qualità. Oggi neanche quella: conta solo la quantità.

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  3. Effettivamente... :)
    E qui si riesce a metter un link? Comunque su Bora, una riflessione sulla trasmissione di ieri sera - http://elenuccigeorgie.menstyle.it/780/vieni-via-con-me

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  4. Ele, ho notato che ergoniom ha scovato una nuova vittima... Povera te... ;)

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  5. Sono sua vittima da un sacco di tempo ormai, tra i suoi vari alti e bassi, c'era pure il periodo in cui mi ha voluto bene, dove scriveva che ero l'unica che poteva sforzarsi di leggere! Vero amore! :D

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  6. Ti rispondo da non giornalista (e nemmeno aspirante tale) che ha supportato Paola come precaria. Hai ragione quando parli di mancanza di coscienza dei propri diritti, perché è una mancanza di coscienza collettiva. Non è una questione che si limita al campo del giornalismo. Lo vedo nei miei tanti lavori, parlando con tutti i lavoratori che ho incontrato, inclusi quelli dello spettacolo. L'idea che vige è che siamo soli. L'idea però arriva anche dall'ambiente circostante, fatto di persone che non sono più allenate a percepirsi come individui che godono di diritti. L'idea che vige è che in un certo senso ci si debba accontentare di quello che si ha senza lamentarsi o protestare perché chi protesta diventa automaticamente un piantagrane.
    Allora, poiché vedo tutti i giorni quello che accettano i miei colleghi operatori call center in merito a diminuzione della dignità e semplicemente per un lavoro che devono fare perché devono sopravvivere, posso intuire come si possa essere sentita Paola all'idea di un mondo dove lei aspira a fare il lavoro che le piace e che si è scelta senza per questo essere condannata alla precarietà.
    Nelle discussioni degli ultimi giorni ho sentito all'infinito ripetere cose come 'è un lavoro fatto così, che vuoi...', e io, sinceramente, da persona che non vive i contratti del giornalismo ma ha vissuto con una pesantissima partita IVA per fare lavori che tutto sommato avrebbero potuto svolgersi con contratti di tipo diverso (anche con collaborazioni o addirittura pensando a un tempo determinato da inventarsi ex novo, ma che avrebbe garantito elementari diritti, incluso quello a percepire sussidio di disoccupazione ridotta, che per i portatori sani di partita IVA è un miraggio), capisco perfettamente il senso di solitudine che potrebbe spingerti a prendere una decisione drastica come lo sciopero della fame.
    Nemmeno io, paradossalmente, avrei mai pensato, nelle condizioni di Paola, a rivolgermi a un tribunale del lavoro. Perché è una cosa che da fuori sembra terribilmente difficile, soprattutto se sei da sola.
    Insomma, il discorso è questo: qui il problema non riguarda solo il precariato. E' proprio una generale mancanza di percezione dei diritti, che andrebbe ricostruita. Ci sono discorsi pericolosi, in giro. E un disfattismo che sta arrivando a livelli incontrollabili. Per non parlare dell'incapacità di pensare che i primi a dover difendere i nostri diritti siamo noi, perché se non ci pensiamo noi nessun altro lo farà. Mi scuso per la prolissità,ma in questi giorni sono state sviscerate una serie di problematiche che meriterebbero tanti volumi di enciclopedia, per discuterle tutte.

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  7. Giuliana, sono perfettamente d'accordo con te. I lavoratori (tutti, dipendenti e non) hanno perso qualsiasi forza contrattuale perché fuori c'è troppa gente disposta ad accettare qualsiasi condizione e vessazione. L'asticella s'è abbassata al punto che rivendicare i propri diritti equivale a piantar grane. Nella vicenda di Paola non voglio neppure entrarci. E' una situazione personale. Quello che mi ha scosso è che - inizialmente - tutti si sono schierati a favore di uno sciopero della fame, quando il passo più normale e civile è quello legale. Paola ha fatto una scelta estrema, ma tutti si sono subito conformati. Il dato grave che emerge è questo. (Il post però semplicemente voleva porre l'attenzione su come è stata rilanciata la notizia dai nuovi media: in modo superficiale, per nulla professionale e, alla fine, dannoso anche per Paola. Alla lunga, dannoso per tutti. Occhio a dare per morto il giornalismo tradizionale, non c'è da guadagnarci.)

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  8. Ti dico sinceramente che per me vedere una scelta estrema è un sintomo di disagio e della percezione, spesso sbagliata, ma diffusa, di essere soli davanti a quelle che sono percepite come ingiustizie. Come precaria io sono stata e sono contenta che si sia ricominciato a mettere il dito in un problema come quello del precariato, troppo spesso assente dalle pagine dei giornali quando è presente di continuo nella vita dei cittadini. Sull'argomento del post non mi sono sentita di entrare, perché non è di mia competenza: il mio blog non pretende di sostituire il giornalismo professionale, anzi, se ne guarda bene. Quindi lascio che la discussione prosegua per il percorso che hai tracciato.

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