La Champions è una competizione molto logica: di solito passano
le più forti. E alla fine vincono le migliori. Su 14 edizioni della
lega europea com’è oggi, solo tre volte ha vinto chi è
qualificata seconda nel gruppo. E due di queste tre volte sono
squadre di Mourinho: il Porto del 2004 e l’Inter del 2010 (l’altra
è il Liverpool del celebre 3-3 dell’Ataturk al Milan).
Questo per
dire che se fai sei punti in sei partite c’è poco latte versato su
cui piangere. Ha ragione Conte a sottolineare che “l'errore è
stato ridurci a giocare l'ultima gara qui a Istanbul con la
qualificazione in bilico”. Ingenuità come il pareggio di
Copenaghen o, ancora peggio per come è maturato, quello in casa col
Galatasaray in Champions League si pagano senza appello.
Poi, certo,
in una competizione multimilionaria non ti aspetti di giocare su un
campo da oratorio, ma se capita bisogna adattarsi. Il che vuol dire
palla lunga e viva il parroco. Sul fango si lotta non si cerca il
triangolo e due lenze come Drogba e Snejider hanno dimostrato di
avere la maturità per applicarlo. Didier non finirà mai di
stregarmi, ma questa è una fissa tutta mia e mi porterebbe fuori
tema.
Le ricadute psicologiche di questa mancata qualificazione sono
tutte da valutare. Più facile invece calcolare quelle sul bilancio.
Sarà un ammanco che peserà fatalmente sulla campagna acquisti del
prossimo anno. Salvo vincere l’Europa League e partecipare alla
Supercoppa europea.
Ma, al di là della suggestione della finale in
casa, l’Europa dei poveri è una iattura per quantità di impegni,
trasferte, partite al giovedì. Urgono ricambi, magari anche non di
statura tecnica elevatissima per rimanere coi titolari fortemente
concentrati sul campionato. Largo alla Primavera, che tanto, pure
lei, non ha più impegni in Youth League, eliminata dal Copenaghen.
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