Ieri è stata una serata storica (e non perché non andiamo in Europa, dopo 21 anni), ma perché salutiamo, speriamo per sempre, lo stadio Olimpico. Per celebrare adeguatamente l'evento, ripropongo il pezzo che pubblicai su La Stampa, il giorno dopo il rientro nell'anziano Comunale. Fu dopo Juve-Vicenza, nell'autunno del 2006. E A-Team
si chiamava B-Movie
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Che cosa rimarrà di questo debutto all’Olimpico? Tutte quelle bandiere mentre lo stadio intona “I campioni dell’Italia siamo noi” aprono il cuore (che si trova più o meno all’altezza di dove dovrebbe esserci scudetto), ma no.
Signori, la vera novità di stagione è il trascinante deejay che, forte di un impianto degno di Marylin Manson, ci ha fracassato gli zebedei per tutto il pre-partita e l’intervallo. Rigurgito degli anni Ottanta, schiavo del divertimento obbligatorio, icona acustica dell’Operazione simpatia: lo voglio morto. Visto che è la prima, basta metaforicamente. Ma stai attento, figlio illegittimo del Super-Telegattone, se perseveri c’è un intero stadio pronto a danzare “I will survive” sulle tue spoglie.
Scusatemi, ma un pomeriggio con Boumsong mi rende spietato. Anche verso l’evento che qualche burlone ha definito il ritorno a casa. Non raccontiamo balle: la vera penalizzazione è proprio lui. Cambiategli cento volte nome, truccatelo, mettetelo in incognito, ma lo riconosceremo sempre: è e rimarrà il vecchio, indigesto Comunale. Ora si fa chiamare “Olimpico”, come quelle snob attempate, che dopo tre divorzi usano il cognome del marito più ricco e famoso. Catarsi o nemesi che sia, rientrarci in B è solo il segno di un destino cinico e baro.
Conosco l’obiezione: non sei un vero innamorato della Juve. Qui hai visto i miti: Bettega, “Le Roi” Michel, il Trap, la squadra degli otto campioni del mondo (i quali, aggiungo tanto per non rinfocolare sterili polemiche, non ci hanno neppure mollato subito dopo). Come fai a non amarlo? Tanto più che, proprio su queste pagine, Massimo Gramellini gli ha intonato un’ispirata, ancorché granatissima, ode. Lui sì che è tifoso vero, come tutti quelli del Toro.
Bravi. Troppo facile amare il Comunale uscendo dal portone di casa e ritrovandosi in Maratona. I bianconeri, lo sanno tutti, non abitano (solo) a Torino e il vero amore si vede nel dolore più che nella gioia, nella malattia più che in salute. Allora, provate voi a svegliarvi all’alba, farvi deportare su un pullman fumoso, arrivare stremati a Torino, mangiare in piedi come cavalli, beccarvi la pioggia, mentre intuite una partita che si gioca laggiù, oltre un’assurda pista d’atletica. Infine, a tornare a casa all’ora dei vampiri, gonfi di un sentimento che non sia di follia omicida.
Pretendere che noi juventini dispersi ai quattro angoli dello Stivale amiamo il Comunale è sinceramente troppo. Lo abbiamo sopportato, ed è già una conquista francescana.
Ora ce lo ritroviamo addirittura Olimpico, ma non illudiamoci: l’abito non fa il monaco. Certo, dopo la ristrutturazione le cose sono cambiate. L’aspetto è gradevole e non ti sfinisci più come un tempo stando in piedi in tribuna. Oggi lo fai direttamente ai tornelli. Unico stadio dell’emisfero a rispettare la legge Pisanu, è più facile rubare l’Urlo di Munch che varcarne i cancelli. Se è vero che quando parlano di te ti fischiano le orecchie, all’ex ministro ieri sono esplosi i timpani. Sappia che hanno contribuito anche le amabili signore del mercato di Santa Rita, onorevole.
Invoco chi di dovere: sindaco, presidente, Famiglia. Non m’importa a chi tocchi, ma ha due anni di tempo, quelli che ci metteremo per tornare in Coppa. Per allora dateci uno stadio da mostrare con orgoglio all’Europa. Là c’è chi gioca nel “Teatro dei Sogni”, qui finora abbiamo avuto solo teatri da incubo. E poi, se ci tenete, questo chiamatelo pure “Grande Torino”. Tanto noi saremo grandi altrove.