Manca l’istinto killer. Il Milan s’impantana a Genova con la Samp e non ne approfittiamo per portarci a -4. La Fiorentina si presenta all’Olimpico con una squadra tenuta su con lo scotch e non solo non le diamo il colpo di grazia che si merita, ma rischiamo pure di perdere. Ha ragione Chiellini, sempre più capitano in pectore: “Non è questione di sfortuna”. Purtroppo, no. Ci manca la vocazione del matador.
Che, in soldoni, vuol dire che siamo orfani di uno come Trezeguet, uno che là davanti – come il Wolf di Pulp Fiction - risolve problemi. Uno a cui butti la palla “in the box” e poi puoi dedicarti ad altro che tanto ci pensa lui.
Con tutta l’evidenza degli ultimi tre anni juventini, Iaquinta non fa rima con Wolf. Il gol che si è mangiato davanti a Boruc grida vendetta. Nessuna croce addosso a Vincenzo, per carità. Non è colpa sua, avendo dimostrato di essere più efficace come seconda punta, che parte larga. Peccato però che la Juve non abbia nient’altro che seconde punte, non potendo contare Amauri, l’unico strutturalmente incline a star là davanti (il buttarla dentro, ahinoi, è altra cosa). Vicenzone s’adegua, ma così sprechiamo occasioni d’oro.
Tutto lo spogliatoio è unanime: questi sono due punti persi. Le lacune emerse ieri, sono quelle che conoscevamo già ad agosto: l’esterno destro di difesa, l’assenza di creatività (quando Krasic è spompo e Aquilani non ispirato, è notte buia), un attacco leggero. Ma questo è un campionato dove non ci vuole il Brasile di Pelè e Garrincha per essere competitivi. Con un attaccante vero saremmo da scudetto (ah, nota per i nuovi arrivati, Delneri compreso: sono quattro anni che ogni volta che si pronuncia quella parola a Vinovo o in sede, la partita dopo sono schiaffi. Pregasi tacere).
Sto a forza vincendo i rimpianti per il mancato arrivo di Borriello. Non so quanto potrò resistere. Spero che il direttore Marotta mi aiuti a gennaio. Essere costretto a invidiare la Roma sarebbe davvero un colpo troppo duro.
domenica 28 novembre 2010
sabato 27 novembre 2010
L'amico Sergio Ramazzotti ramazza premi
Il mio amico Sergio Ramazzotti ha vinto per la seconda volta in sei edizioni il prestigioso premio giornalistico Enzo Baldoni (in giuria, tra gli altri, Ferruccio De Bortoli, Gianni Riotta, Natalia Aspesi, Maurizio Belpietro, Antonio Di Bella), per il suo libro "Afghanistan 2.0 - 10 storie 1 futuro". Sergio è un reporter vero, di quelli che fanno sognare questa professione. L'ho intervistato per il settimanale Vita. Presto metterò online la bella chiacchierata, da cui traggo questo brano:
“Ho seguito gli americani in Afghanistan e in Iraq e li ho visti reagire alle situazioni più tese in modo assai meno professionale di quello che ci si attenderebbe dalla mitica potenza militare. Reazioni sproporzionate, figlie di esaltazioni dell’addestramento dei marines. Loro prima sparano, poi si pongono domande. Di recente, in volo su un Black Hawk, ho visto mitragliare a un riflesso: il pilota non sapeva neppure a chi stesse sparando, poteva essere un pastore, una donna o un bambino”.
“Ho seguito gli americani in Afghanistan e in Iraq e li ho visti reagire alle situazioni più tese in modo assai meno professionale di quello che ci si attenderebbe dalla mitica potenza militare. Reazioni sproporzionate, figlie di esaltazioni dell’addestramento dei marines. Loro prima sparano, poi si pongono domande. Di recente, in volo su un Black Hawk, ho visto mitragliare a un riflesso: il pilota non sapeva neppure a chi stesse sparando, poteva essere un pastore, una donna o un bambino”.
giovedì 25 novembre 2010
Segno della croce o segno dei tempi?
Chelsea, Barça, Real, Manchester Utd, ovvero l’aristocrazia d’Europa conquista gli ottavi come da blasone: asfaltando gli avversari. L’Inter, per gli almanacchi la regina d’Europa, s’arrangia con dei modesti pedatori nordici e la vittoria è sofferta al punto da spingere il suo presidente a farsi il segno della croce in eurovisione.
Un’immagine degna di ben altri ringraziamenti ripresa in prima pagina dal giornale rosa non economico. Il che mi impedisce di decidermi se m’intristisce di più la figura calcistica continentale (perché, che lo voglia o no, da campione in carica l’Inter rappresenta l’Italia all’estero) o lo stato della stampa italiana.
mercoledì 24 novembre 2010
Benítez, tutta colpa della tua mascella
Il cinquantenne allenatore madrileno Rafael Benítez Maudes, detto Rafa, ha vinto due campionati spagnoli con il Valencia (che in totale ne ha vinti sei, di cui tre in periodo bellico e immediatamente post-bellico), la prima e unica Coppa Uefa dello stesso club, una Champions League, una Coppa d’Inghilterra, una Supercoppa Europea e una Community Shield con il Liverpool. Più una Supercoppa italiana con l’Inter.
Serve snocciolare il palmares da top trainer europeo, perché in questi giorni sembra che sulla panchina nerazzurra si sia seduto un pensionato in attesa del tram.
Stasera contro il Twente, seconda in Eredivisie, si gioca il futuro in Italia. La credibilità invece, qui da noi, gliel’hanno già fatta a pezzi dall’interno.
Fin dalla scorsa estate, infatti, il pluri-decorato Rafa è arrivato ad Appiano Gentile con il bollo della terza-quarta scelta. Nei corridoi di via Durini si narra che il suo nome sia stato caldeggiato a un perplessissimo Presidente dal direttore dell’area tecnica, Marco Branca, e dal figlio, in nome di quella gestione famigliare che connota gran parte delle società di calcio italiane.
Ma il patron Massimo (e gossip di palazzo aggiungono pure un’altra componente di spicco della famiglia), orfano del bel Josè, uno con il viso rubizzo e senza mascella squadrata non lo avrebbe voluto mai. Meglio gente come Capello, Hiddink, Spalletti. Ovvero, gli stessi nomi che girano oggi, ma che all’epoca, per un motivo o per l’altro, risposero picche al petroliere milanese, che si trovò a turarsi il naso e a scegliere colui al quale riconosceva l’unico pregio di una rimonta storica e umiliante al Milan.
Purtroppo per Rafa, però, il naso era tappato, ma la bocca è sempre stata liberissima. Una critica dietro l’altra, fino alla sfiducia definitiva del post-Milan: “Il derby si affronta con una mentalità diversa”. Lì Benítez è diventato ufficialmente un ex.
Non un gran tempismo. Perché va bene il Chievo, ma da stasera in poi il calendario sembra disegnato apposta per indicare all’Inter la strada per la resurrezione. Intanto, con una vittoria si regala l’accesso agli ottavi di Champions, con cui affrontare più tranquilli tre turni di campionato senza Eto’o. Ma non è che serva necessariamente il camerunense per battere in casa Parma e Cesena. La trasferta con la Lazio? Un pari ci può stare e, allora, sarebbero sette punti su nove. Che significa rilancio prima dell’appuntamento con la storia: il Mondiale per Club.
Provate a immaginarvi questo quadretto di Natale: Benítez campione del mondo, che attende placido gli scontri diretti in Champions e in piena corsa in campionato.
Idillio? Neanche per sogno, perché comunque andrà stasera, Rafa è un allenatore con la data di scadenza stampata in fronte. Grazie alla strategia del Presidente. E, se non siete Alice nel Paese delle Meraviglie, non abboccherete quando vi diranno che non è premeditata. Per Moratti la colpa di Benítez sta in quella mascella troppo rotonda: purtroppo per lui, a 50 anni, non la si cambia mica più. Neanche da Campioni del Mondo.
martedì 23 novembre 2010
Il bacio del vampiro, peggio di Eto'o
Luis Suarez azzanna Otmal Bakkan, del Psv. Nel giorno dell'Eto'o-Zidane c'è chi riesce a fare pure peggio.
lunedì 22 novembre 2010
Brava Juve, ora scambia Amauri con Eduardo
Il mio consueto "A-Team" sul sito de La Stampa, a commento di Genoa-Juve
Abbiamo trovato il centravanti del futuro. È portoghese, 28 anni, raro fiuto del gol: ha trasformato d’astuzia un innocuo assist di Marchisio e sul magnifico cross di Krasic ha deviato sul paletto più lontano, infilando l’incolpevole Eduardo. Che poi è egli stesso.
Suggerisco un cambio alla pari con Amauri: potenzialmente un affarone anche per il Genoa, visto che l’italo-brasiliano il pallone in porta non lo vede mai e come portiere sarebbe imbattibile.
Al di là delle prodezze di Eduardo, la Juve ha confermato progressi incoraggianti, nonostante un’infermeria da ospedale da campo della Prima Guerra Mondiale. Fa impressione, ma deve anche inorgoglire, incoraggiare e far sperare, portare a casa tre punti schierando contemporaneamente Sorensen, uno che doveva fare il campionato Primavera, e Grosso e Salihamidzic, coppia che fino a qualche giorno fa era addirittura fuori rosa.
Quando riescono queste alchimie, che profumano di magico, è perché l’ambiente è sano e le cose funzionano al meglio. Di questo va dato atto a Delneri che, nonostante una materia prima non di eccelsa qualità, sta modellando la creatura in forma convincente.
Un altro simbolo di questa costante progressione è la luminosa stagione di Felipe Melo. Sollevato da ingrati e inopportuni compiti di regia, fa quello per cui è dotato: recuperare palloni. E il suo apporto è simbiotico al delicato lavoro di Aquilani: cucire i reparti e dare i tempi alla squadra. Che il dio del calcio preservi la salute ad Alberto!
Infine, Krasic. Ormai è quasi inutile soffermarsi sulle sue doti, che non sorprendono più. Mi è piuttosto piaciuto il carattere. Accolto a Marassi come se fosse Hannibal the Cannibal (evidentemente è il solo nella storia ad aver simulato una caduta in area), non ha fatto una piega: ha abbassato il capoccione biondo e ha tirato scemo Mimmo Criscito, nazionale azzurro. Così si reagisce alle ingiustizie.
Abbiamo trovato il centravanti del futuro. È portoghese, 28 anni, raro fiuto del gol: ha trasformato d’astuzia un innocuo assist di Marchisio e sul magnifico cross di Krasic ha deviato sul paletto più lontano, infilando l’incolpevole Eduardo. Che poi è egli stesso.
Suggerisco un cambio alla pari con Amauri: potenzialmente un affarone anche per il Genoa, visto che l’italo-brasiliano il pallone in porta non lo vede mai e come portiere sarebbe imbattibile.
Al di là delle prodezze di Eduardo, la Juve ha confermato progressi incoraggianti, nonostante un’infermeria da ospedale da campo della Prima Guerra Mondiale. Fa impressione, ma deve anche inorgoglire, incoraggiare e far sperare, portare a casa tre punti schierando contemporaneamente Sorensen, uno che doveva fare il campionato Primavera, e Grosso e Salihamidzic, coppia che fino a qualche giorno fa era addirittura fuori rosa.
Quando riescono queste alchimie, che profumano di magico, è perché l’ambiente è sano e le cose funzionano al meglio. Di questo va dato atto a Delneri che, nonostante una materia prima non di eccelsa qualità, sta modellando la creatura in forma convincente.
Un altro simbolo di questa costante progressione è la luminosa stagione di Felipe Melo. Sollevato da ingrati e inopportuni compiti di regia, fa quello per cui è dotato: recuperare palloni. E il suo apporto è simbiotico al delicato lavoro di Aquilani: cucire i reparti e dare i tempi alla squadra. Che il dio del calcio preservi la salute ad Alberto!
Infine, Krasic. Ormai è quasi inutile soffermarsi sulle sue doti, che non sorprendono più. Mi è piuttosto piaciuto il carattere. Accolto a Marassi come se fosse Hannibal the Cannibal (evidentemente è il solo nella storia ad aver simulato una caduta in area), non ha fatto una piega: ha abbassato il capoccione biondo e ha tirato scemo Mimmo Criscito, nazionale azzurro. Così si reagisce alle ingiustizie.
giovedì 18 novembre 2010
Zlatan. Il gol più bello della mia vita
"Nel 2004 ero all'Ajax e mi cercava la Juve. Van der Vaart non mi parlava più perché diceva che l'avevo infortunato di proposito in allenamento. Per quel motivo, quando entrai in campo contro il NAC Breda, i supporter dell'Ajax mi fischiarono. Rafa (Van der Vaart, ndr.) non giocò. Io sì. E segnai due gol e feci quattro assist".Che fanno 6, esattamente quelli che segnò l'Ajax (a 2) e uno di quelli Zlatan lo considera il più bello della sua carriera.
"Un difensore mi disse: 'Zlatan, pensavo che fossimo amici'. Mi scusai, perché non m'ero accorto che in passato avevamo giocato assieme. Come reagì Van der Vaart? Non me ne curai. Il giorno dopo firmai per la Juve".
Record. Il Cheval Blanc '47 è il vino più caro del mondo
La stagione delle aste di vino continua a segnare nuovi record. Ieri, all’asta di Christie’s a Ginevra è stata venduta per 224 mila euro (quasi mezzo miliardo delle vecchie lire)una bottiglia di Cheval Blanc del 1947 (una imperial da 6 litri). Probabilmente uno dei migliori vini del mondo dal potenziale di invecchiamento di almeno altri 50 anni. Quello di ieri è il nuovo record mondiale. Anche se la vera medaglia d’oro spetta ancoraFonte: Gambero Rosso.
allo Chateau Lafite-Rothshild del 1969 (in formato classico da 0,75 litri) battuta per 170 mila euro, ad un asta di Sotheby’s ad Hong Kong meno di un mese fa.
mercoledì 17 novembre 2010
Paola mangia e comincia il tiro al piccione
Una buona notizia coincide con una conferma: dietro allo schermo di Internet non allignano marziani, ma terresti con le loro pance umorali. Circa 76 ore fa eravamo tutti Paola. Ora che, arrivata alla soglia dei 40 chili (più o meno il peso di mia figlia di 9 anni), ha deciso di interrompere lo sciopero della fame, comincia l'inevitabile tiro al piccione. Caricate gli schioppetti e svuotateli subito, che domani ci sarà un nuovo giro di giostra. Senza provare un filo di vergogna.
(Mi scuserà Susan, che non conosco, ma è giusto uno dei tanti esempi possibili.)
comunque io è dall'inizio che dico che all'evidente esaurimento della signora non fa certo bene la generalizzata mancanza di neuroni dell'internet; è d'altra parte vero che è lei che si è rivolta all'internet, e infatti è dall'inizio che dico anche: ma non ce l'ha un'amica/un fidanzato/una sorella? - Susan Vance via FF
(Mi scuserà Susan, che non conosco, ma è giusto uno dei tanti esempi possibili.)
martedì 16 novembre 2010
Il caso di Paola e la fine del giornalismo
Il doloroso caso di Paola su Internet lo conoscono tutti (e, per chi si fosse messo solo ora all’ascolto, lo trova riassunto qui). Poteva diventare un caso in grado di favorire un dibattito sul precariato (al di là del caso specifico di Paola), invece è diventato una splendida case history sul mondo del giornalismo attuale.
La crisi dell’editoria è sotto gli occhi di tutti. Crisi da erosione di lettori, crollo della pubblicità e invasione degli altri media. Ma non solo. Il “caso Paola” ha fotografato con grande nitidezza una delle vere mine, che davvero può portare all’estinzione del giornalismo, come lo conoscevamo fino a qualche tempo fa. Ovvero, la totale perdita di percezione che il lavoro giornalistico sia un lavoro specializzato.
Un processo di degrado che, purtroppo, ha ricevuto una brusca accelerazione con lo sviluppo della Rete e degli strumenti social. Dalla nascita dei blog, fino ai network sociali più diffusi, si è diffusa l’idea che basta avere un pubblico a cui rivolgersi per essere dei (potenziali) tecnici della comunicazione. O, ancora peggio, che basta scrivere bene per essere giornalisti. Trascurando invece le prerogative più importanti: che è un mestiere etico, che comporta studio, approfondimento, tecnica, che ha un proprio linguaggio specifico, conoscenze, apprendimenti elaborati attraverso complessi processi di prova ed errore.
Il fatto grave è che è un’idea tanto forte da avere influenzato anche chi produce informazione: gli editori. Il mito del citizen journalism si è propagato a macchia d’olio e, invece, di diventare quello che in realtà è, un ausilio e uno sprone per gli operatori professionali per far meglio, ne è diventato l’alternativa secca.
Da qui, il salto definitivo: se è vero che tutti possono fare i giornalisti, perché pagare e tenere in casa dei professionisti, su cui gravano contratti onerosi e sindacati invadenti? Quanti di noi negli ultimi mesi si son sentiti dire: “Se non ti va bene fare questo, qui fuori c’è la fila di gente che vuol farlo”. Ed è vero. Non solo, è una fila disposta a tutto. A lavorare per pochi soldi, in situazione di precariato costante, senza tutela di nessun tipo sul futuro.
Perché su Internet questa è la regola. Se non ci sei tu, c’è un altro. Gratis. Io mi sono sentito dire da uno dei più grandi editori italiani, per uno dei suoi progetti di punta: “Non voglio giornalisti, mi bastano due o tre ragazzotti che scrivano, facciano le foto, video e mettano in Rete”. Ragazzotti che avrebbe trovato a casse, pagandoli come se le casse le scaricassero al mercato.
I grandi editori sono vissuti dai “tupamaros del web” come il Grande Demone, almeno finché galleggiano nel limbo dei blog e dei social network. Ma appena si apre uno spiraglio per metterci il naso dentro, accettano tutto senza porre condizioni. Per lo più però è gente abilissima a maneggiare il mezzo “tecnicamente”, ma che quasi mai ha un background giornalistico vero.
Voglio dire, l’abbiamo visto bene con Paola. Un praticante al primo mese sa che, prima di formarsi un qualsiasi giudizio, deve incrociare le fonti e, quanto meno, sentire la controparte. Sarebbe bastata una telefonata al Corriere della Sera dopo un minuto per dare alla questione una direzione totalmente diversa, evitando molti guai alla povera Paola. E, assai più probabilmente, il medesimo praticante si sarebbe fatto ispirare un approfondimento più utile e maturo. Che so, capire perché l’Associazione italiana giornalisti (l’Ordine non c’entra nulla) permette agli editori di avere in redazione tanto lavoro sommerso, oppure comprendere il ruolo delle scuole di giornalismo e il loro ruolo, non sempre cristallino, nell’accesso alla professione. O mille altri spunti, ma mai il “Io sono Paola”.
Amo il web, la mia storia lo dimostra, ma proprio per questo m'addolora che il dramma del giornalismo italiano attuale deve molto alla Rete. Non certo perché la carta verrà uccisa da Internet, ma perché troppi improvvisati figli di quest’era digitale hanno contribuito ad abbassare la soglia qualitativa della professione. E, con essa, il potere contrattuale verso gli editori.
Io sono molto preoccupato se per tutti quanti diventa normale pensare, dopo sette anni di precariato, che è più giusto fare uno sciopero della fame, piuttosto che interpellare un tribunale del lavoro.
Perché la fine dei diritti (che è ben altro rispetto al precariato) è ormai entrata sotto pelle a tutti. Nel mondo dell’editoria mai come oggi. Ed è davvero un guaio gigante, perché il fine ultimo di questo mestiere è fondamentale per una società democratica.
Ne soffro, ma devo dar ragione a chi dice che sarà Internet a uccidere il giornalismo come l'abbiamo conosciuto. Purtroppo per tutti noi, però, i motivi saranno ben altri di un uso mirabolante del digitale.
La crisi dell’editoria è sotto gli occhi di tutti. Crisi da erosione di lettori, crollo della pubblicità e invasione degli altri media. Ma non solo. Il “caso Paola” ha fotografato con grande nitidezza una delle vere mine, che davvero può portare all’estinzione del giornalismo, come lo conoscevamo fino a qualche tempo fa. Ovvero, la totale perdita di percezione che il lavoro giornalistico sia un lavoro specializzato.
Un processo di degrado che, purtroppo, ha ricevuto una brusca accelerazione con lo sviluppo della Rete e degli strumenti social. Dalla nascita dei blog, fino ai network sociali più diffusi, si è diffusa l’idea che basta avere un pubblico a cui rivolgersi per essere dei (potenziali) tecnici della comunicazione. O, ancora peggio, che basta scrivere bene per essere giornalisti. Trascurando invece le prerogative più importanti: che è un mestiere etico, che comporta studio, approfondimento, tecnica, che ha un proprio linguaggio specifico, conoscenze, apprendimenti elaborati attraverso complessi processi di prova ed errore.
Il fatto grave è che è un’idea tanto forte da avere influenzato anche chi produce informazione: gli editori. Il mito del citizen journalism si è propagato a macchia d’olio e, invece, di diventare quello che in realtà è, un ausilio e uno sprone per gli operatori professionali per far meglio, ne è diventato l’alternativa secca.
Da qui, il salto definitivo: se è vero che tutti possono fare i giornalisti, perché pagare e tenere in casa dei professionisti, su cui gravano contratti onerosi e sindacati invadenti? Quanti di noi negli ultimi mesi si son sentiti dire: “Se non ti va bene fare questo, qui fuori c’è la fila di gente che vuol farlo”. Ed è vero. Non solo, è una fila disposta a tutto. A lavorare per pochi soldi, in situazione di precariato costante, senza tutela di nessun tipo sul futuro.
Perché su Internet questa è la regola. Se non ci sei tu, c’è un altro. Gratis. Io mi sono sentito dire da uno dei più grandi editori italiani, per uno dei suoi progetti di punta: “Non voglio giornalisti, mi bastano due o tre ragazzotti che scrivano, facciano le foto, video e mettano in Rete”. Ragazzotti che avrebbe trovato a casse, pagandoli come se le casse le scaricassero al mercato.
I grandi editori sono vissuti dai “tupamaros del web” come il Grande Demone, almeno finché galleggiano nel limbo dei blog e dei social network. Ma appena si apre uno spiraglio per metterci il naso dentro, accettano tutto senza porre condizioni. Per lo più però è gente abilissima a maneggiare il mezzo “tecnicamente”, ma che quasi mai ha un background giornalistico vero.
Voglio dire, l’abbiamo visto bene con Paola. Un praticante al primo mese sa che, prima di formarsi un qualsiasi giudizio, deve incrociare le fonti e, quanto meno, sentire la controparte. Sarebbe bastata una telefonata al Corriere della Sera dopo un minuto per dare alla questione una direzione totalmente diversa, evitando molti guai alla povera Paola. E, assai più probabilmente, il medesimo praticante si sarebbe fatto ispirare un approfondimento più utile e maturo. Che so, capire perché l’Associazione italiana giornalisti (l’Ordine non c’entra nulla) permette agli editori di avere in redazione tanto lavoro sommerso, oppure comprendere il ruolo delle scuole di giornalismo e il loro ruolo, non sempre cristallino, nell’accesso alla professione. O mille altri spunti, ma mai il “Io sono Paola”.
Amo il web, la mia storia lo dimostra, ma proprio per questo m'addolora che il dramma del giornalismo italiano attuale deve molto alla Rete. Non certo perché la carta verrà uccisa da Internet, ma perché troppi improvvisati figli di quest’era digitale hanno contribuito ad abbassare la soglia qualitativa della professione. E, con essa, il potere contrattuale verso gli editori.
Io sono molto preoccupato se per tutti quanti diventa normale pensare, dopo sette anni di precariato, che è più giusto fare uno sciopero della fame, piuttosto che interpellare un tribunale del lavoro.
Perché la fine dei diritti (che è ben altro rispetto al precariato) è ormai entrata sotto pelle a tutti. Nel mondo dell’editoria mai come oggi. Ed è davvero un guaio gigante, perché il fine ultimo di questo mestiere è fondamentale per una società democratica.
Ne soffro, ma devo dar ragione a chi dice che sarà Internet a uccidere il giornalismo come l'abbiamo conosciuto. Purtroppo per tutti noi, però, i motivi saranno ben altri di un uso mirabolante del digitale.
lunedì 15 novembre 2010
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