venerdì 31 dicembre 2010

Vota la stella di Zibì


La mia prima maglietta bianconera aveva il 7 rosso di Helmut Haller. Nessuno lo voterà mai, purtroppo, ma il tedesco è uno dei possibili ripescati in quella strana e assurda vicenda che riguarda la “stella di Boniek”.

Come si sa, il nuovo Delle Alpi, prendendo esempio da Disneyland, sarà costellato (nel vero senso della parola) di piastrelline placcate, col nome del tifoso pagante (dai 250 ai 350 euro, mica acqua fresca). La novità rispetto ai parchi di divertimento è che il lastrico è dedicato a 50 campioni del passato. Fino a qualche giorno fa tra questi c’era Zibì Boniek, uno che indiscutibilmente la storia della Juve l’ha fatta: per conferma, chiedere a Giampiero Boniperti quanto ha esultato all’Heysel, quando Zbigniew è svenuto davanti all’area del Liverpool.

In quell’occasione io proprio non potevo, ma ho esultato (e tanto) invece quando l’anno prima ci regalò la seconda coppa europea, segnando in finale di Coppa delle Coppe contro il Porto o quando buttò due volte il pallone rosso alle spalle di Grobelaar per la prima nostra Supercoppa Europea, il 16 gennaio 1985.

Eppure, inseguendo la pancia dei tifosi più accesi, il “Bello di Notte” (definizione di Agnelli, quello vero), forse non avrà la sua stella nella nostra nuova casa. La colpa: essere troppo filo-romanista. Come se il suo intimo sentimento possa andare contro l’evidenza della storia. E chi se ne frega se alla Domenica Sportiva critica la Juve? Le sue opinioni cancellano forse quanto ha fatto trent’anni fa sul campo?

Eppure, grazie a un cavillo burocratico, la sua stella è stata rimessa in ballottaggio e una nuova lista di 53 giocatori del passato si rigiocheranno il privilegio con una votazione online (che ovviamente favorisce i campioni più recenti, visto che di solito votano i più giovani).

Non mi piace, non mi è mai piaciuta, una società che insegue il compiacimento dei tifosi. Una società femmina che si piega a chi alza la voce di più. La forza di una dirigenza si coglie dalla convinzione di quello che fa, dal non rimangiare mai le proprie decisioni, di non essere dipendente da fattori esterni. Sarebbe bello se la maggioranza silenziosa dei tifosi bianconeri rivotasse in massa Zibì Boniek. Non ci credo e neppure ci spero, ma sarebbe un bel segnale di dignità per questo entrante 2011.

(P.S.: mentre scrivo, il link per la votazione non è attivo: sarà un caso?)

lunedì 27 dicembre 2010

mercoledì 22 dicembre 2010

Quanto siamo caduti in basso da allora

Il livello del Paese si valuta dai suoi protagonisti. Son passati trent'anni e si sentono tutti.

domenica 19 dicembre 2010

Mister e Vincenzone, c'è categoria e categoria (A-Team)

Esiste una categoria di calciatori che lotta, suda, spinge, crea confusione, sbuffa, si danna, si lancia su ogni pallone come se fosse l’ultima chance della vita. Ma non segna mai. Almeno, mai quando serve davvero. Li chiamano “generosi”. Il capostipite fu Ciccio Graziani che, grazie a Dio, giocava nel Toro e poi nella Roma e, disgraziatamente, nell’Italia. Diventò Campione del Mondo l’11 luglio 1982, guardando Alessandro Altobelli, che giocò al suo posto, segnare in finale. “Spillo” era tutto fuorché generoso: infatti, entrava in campo e la metteva. Magari neanche sudava, ma faceva gol a secchi.

Vai a capire il perché, i generosi sono adorati dagli allenatori. Ne vorrebbero 11, magari pure qualcuno di scorta. Vincenzo Iaquinta è da tempo iscritto "ad honorem" a questa prediletta categoria. Anche col Chievo ha fatto a cazzotti con tutta la difesa, con un campo infame e anche con se stesso. Purtroppo per lui, e anche per noi, da troppo tempo però sta facendo a botte pure con la porta, che a malapena intuisce dov’è.

Discorso vecchio, qui sviluppato ampiamente e senza acrimonia verso il giocatore: con Iaquinta prima punta non si va da nessuna parte. Peccato doverlo ribadire prima di un Natale che fino al 92’ era dolcissimo. Arrivare alla sosta a -3 da un Milan zavorrato dal prossimo arrivo di Cassano, poteva significare tanto.

Poi c’è una categoria di allenatori che, quando si ritrova in 10, toglie la punta più stanca e ne mette un’altra fresca . E poi c’è quell’altra, che toglie la punta e mette un difensore, anche fuori ruolo. Quelli che appartengono alla prima, vincono le Champions. Gigi Delneri appartiene alla seconda.

Difficile altrimenti preferire in campo Legrottaglie e Traoré a Krasic e Pepe, quando c’è da tenere la palla lontano dalla porta. Certo, la panchina non offriva grandi alternative (eufemismo da rileggere in chiave mercato), ma non risulta ci fosse una prescrizione medica che imponesse a tutti i costi la sostituzione di Milos, l’unico in grado di tenere il pallone laggiù. La sostituzione al 43’ del serbo rimane un mistero che soltanto Roberto Giacobbo potrà svelare.

Vabbe’, siamo in clima natalizio, perciò sforziamoci di guardare il lato gioioso della giornata: se avessimo vinto, magari Marotta e co. si sarebbero illusi di avere una squadra competitiva, risparmiando sul mercato. Così, non ci sono più scuse. Auguro alla Società che Babbo Natale faccia trovare tanti bei baiocchi sotto l'albero!

venerdì 17 dicembre 2010

giovedì 16 dicembre 2010

Eh sì, bravo, il mio Napoleone

Eh, certo, tu mi fai un torneino con i coreani e i congolesi e mi poi mi vieni a dire che sei campione del mondo.


lunedì 13 dicembre 2010

E ora siamo di fronte a un bivio storico (A-Team su LaStampa.it)

L’emozionante vittoria sulla Lazio (che genuina goduria segnare a due secondi dalla fine!) ci mette di fronte a un piacevole dubbio. Dobbiamo continuare con questa squadra e i suoi alti e bassi? Trenta punti su 16 partite, proiettate sulla fine del campionato potrebbero significare un media da terzo posto (71 punti). Un risultato in linea con gli obiettivi estivi, figli di una rivoluzione generale, a partire dalla dirigenza in giù, e delle tante carenze d’organico che a tutt’oggi brillano d’evidenza.

È più che chiaro che un Krasic formato Champions League non può coprire da solo i limiti più gravi, su tutti l’assenza di una prima punta vera. La prestazione di Iaquinta grida vendetta. Per carità, non è (solo) colpa sua: non è il suo ruolo e non è neppure l’uomo adatto per gli schemi di Delneri. Cerca sempre di essere lanciato in verticale, ma abbiamo una squadra che male s’adatta a queste caratteristiche. Col risultato che ne vengono fuori improbabili traversoni dalla tre quarti che, da che il calcio è stato inventato, sono miele per le difese avversarie. Il povero Vincenzo si sbatte come un dannato, ma col risultato di far sudare anche il guardalinee, per tutte le volte che deve segnalare i suoi fuorigioco.

Ciò nonostante siamo in corsa, con l’attacco più prolifico del campionato. Il Milan, che pare fare corsa a sé, è a soli 6 punti e, malgrado un meraviglioso Ibra (scusatemi, ma io continuo a esserne innamorato), non dà l’impressione di poter ammazzare il torneo.

Perciò, ecco la domanda: ci accontentiamo per correre per un posto in Champions League o azzardiamo ciò che finora nessuno s’è ancora confessato?

Naturalmente, la risposta passa per il mercato di gennaio. Pur in periodo d’austerity e di fair-play finanziario, l’occasione che si sta prospettando è straordinaria. Proviamo a pensare che cosa significherebbe entrare nel nuovo stadio con lo scudetto sul petto. Qualsiasi investimento sarebbe ampiamente ripagato. Invece di attendere la prossima estate, non è meglio mettere mani al portafogli subito? Consideriamolo un investimento a termine praticamente immediato: spendiamo a gennaio per raccogliere i frutti dopo neppure quattro mesi.

Certo, l’offerta di campioni a gennaio è limitata. Ma anche perché normalmente sono limitati gli investimenti. Tanto per dirne una, Tevez e Benzema sono in vendita. Qualsiasi sia il loro prezzo, vorrebbe dire avere il nuovo Delle Alpi sempre esaurito, riacquistare credibilità internazionale, vendere l’immagine Juve con ben altri parametri e, soprattutto, tornare a mettere trofei in bacheca . Sembra fantacalcio, ma se in sede faranno due conti forse si scoprirà che sono soldi che non fanno a tempo uscire che rientrano.

Se vogliamo inaugurare il nuovo stadio degnamente, non lasciamoci scappare un’occasione storica.

P.S.: Mi asterrei a far commenti sull'uscita di Delneri su Buffon, dopo la prestazione di Storari di ieri.

giovedì 9 dicembre 2010

Callisto Tanzi e i momenti in cui son fiero di essere italiano

(ANSA) - Per il crac Parmalat da 14 miliardi di euro, il Tribunale di Parma ha condannato l'ex patron della società Calisto Tanzi a 18 anni di reclusione. Il pm aveva chiesto per lui 20 anni di reclusione. Sono condannati anche altri dirigenti della società.

Milan - Roma. A che serve la tessera del tifoso?

A niente. O, meglio, non certo a combattere il tifo violento: "Per Milan-Roma non sono state decise limitazioni e i biglietti potranno essere acquistati anche dai tifosi non possessori della tessera" (Fonte: Ansa). Le due tifoserie, tradizionalmente acerrime rivali, potranno scannarsi, ma non godranno degli sconti natalizi offerti dagli esercizi commerciali affiliati alla tessera del tifoso. Peccato per loro.
In compenso, il Comitato di Analisi per la Sicurezza delle Manifestazioni Sportive, ha vietato ai tifosi ospiti di seguire Forza e Coraggio - Ebolitana (dilettanti).
(Chi crede che dietro i privilegi delle squadre romane ci sia un intrico di interessi politici non è figlio di Maria).

lunedì 6 dicembre 2010

Bravo Fabio, ma continuiamo la ricerca del bomber (A-Team su LaStampa.it)

Fabio Quagliarella, pungolato dall’insistente richiesta di un attaccante da 20 gol, s’è messo sulla strada per regalarceli lui. La media è giusta. Nessuno s’illude che possa essere lui l’uomo della Provvidenza o anche soltanto il nuovo Ibra. Però è una bella sorpresa, che contribuisce anche a rendere meno freddo l’inverno del Capitano, che può prendersi meritate pause, senza usurarsi inutilmente, in attesa di tempi e campi migliori.

Ora lo scugnizzo si avventura in dichiarazioni del tipo: “Non serve un bomber, ai gol ci penso io”. Che è un bello spot di fiducia e di forza mentale. Se uno non sta bene anche di testa, certi pensieri non gli vengono nemmeno.

Detto questo, applaudiamo il momento di Fabio, ma non lasciamoci accecare dalle emozioni. Che la ricerca continui: troviamo la punta da 20 gol. Poi, se Fabio ne farà altrettanti avremo un attacco atomico. Dovremmo lamentarci?

A questo proposito, Catania, oltre a tre punti d’oro, ci ha regalato un istruttivo gioco di specchi tra il nostro numero 18 e proprio colui che per alcuni dovrebbe affiancarlo da gennaio, Maxi Lopez. Se è questo il nostro nuovo attaccante (e io temo che tanto meglio non sia), ne abbiamo davvero bisogno?

Il candidato illustri il significato di domanda retorica.

Infine, la solita, stucchevole polemica sulla moviola in campo. Ora siam qui a far filosofia sul gol non visto, ma se non avessimo vinto sarebbe stato d’andare in Svizzera a tirar giù Blatter dal pero.

Ma che ci vuole a mettere un sensore nel pallone, una telecamerina attaccata al palo, una banalissima moviola a disposizione del quarto arbitro o quello che pare al padre-padrone della Fifa, per evitare in tutto il mondo castronerie arbitrali tanto abissali? Qui non si mette in dubbio la sua tanto amata discrezionalità dell’arbitro (che è fonte di potere). Qui non ci sono dubbi filosofici da redimere, bisogna soltanto guardare se la palla è dentro o è fuori. E quando tutti vedono che è dentro e gli unici due che non se ne accorgono sono arbitro e guardalinee, forse sarebbe meglio aiutarli a uscire dallo stadio senza scorta, no?

giovedì 2 dicembre 2010

Qatar 2022. Ma prima si giocheranno i Mondiali dei finti ingenui

Nel 2022 i Mondiali si giocheranno in Qatar. Ora i moralisti, finti ingenui e polemisti d'antan scopriranno su Google Maps dove si trova e grideranno alla lesa maestà. "Oh, cielo, il Mondiale in uno staterello di un milione e mezzo d'abitanti. E poi come si può giocare con quel caldo?".

Ma per fargli capire che cosa possono fare quei quattro gatti dispersi nel deserto, forse basterà dirgli che lo scorso anno Brasile e Inghilterra e hanno giocato un'amichevole in un impianto, in cui il sistema di aria condizionata ha porta­to la temperatura in campo e sulle tribune tra i 18 e i 21 gradi.

A Pasadena (Usa), durante la finale Brasile - Italia, ce n'erano 45.


Sciopero! Io sto coi calciatori (A-Team, su LaStampa.it)

Chiamatelo sciopero. È una parola nobile e democratica. Molte vite e molti dolori soggiacciono ad essa, non vergognatevi a pronunciarla. Anzi, se siete convinti di quello che fate, pronunciatela fieramente e ad alta voce. Non fermatevi sui cavilli: “Si tratta di astensione e non di sciopero”, dice Sergio Campana, presidente dell’Aic. E se pure è vero che qui non salta un bel niente perché la giornata di campionato viene poi recuperata, con tutti i suoi diritti tv e compagnia cantante, “astensione” suona troppo politicamente corretto. Audioleso, operatore ecologico, homeless e ora astensione. Come se non chiamare le cose coi loro nomi le rendessero diverse.

Invece, è giusto scioperare anche se hai un pozzo di soldi, perché la dignità non ha prezzo. Questa volta non ci sono di mezzo procuratori o clausole rescissorie, diritti d’immagine o sponsorizzazioni. Qui c’è in gioco il ritorno al pre-Bosman, quando le società disponevano del cartellino e, di riflesso, della vita del calciatore. Che, benché lautamente pagato, è un lavoratore che ha sottoscritto un contratto, senza usare il kalashnikov per ottenere la firma della controparte.

Evidentemente, però, siamo arrivati a un punto di non ritorno: la crisi globale sta facendo emergere le falle di un sistema, dove l’improvvisazione e l’ignoranza economica hanno dominato incontrastate. Dove le società hanno accumulato debiti stratosferici che, in qualsiasi altro settore economico, avrebbe causato sacrosanti fallimenti. Si deve rimediare, non c’è dubbio. Ma la risposta qual è? Quella di sempre, non solo nel calcio: riversare sul lavoratore l’onere del risanamento.

E se questi non ha intenzione di pagare l’inettitudine del suo capo? Ecco pronte un paio di norme che spalancano le porte alla ritorsione più pelosa. Anzi, chiamiamolo pure come si usa oggi, nel mondo del politically correct: mobbing.

Perché tenerlo separato dal gruppo e farlo lavorare a parte anche se sta bene, spedirlo lontano contro il suo consenso, renderlo prono e senza difese ai voleri dei più volubili presidenti non è altro che questo: un abuso vergognoso (come lo chiamo io, che sono poco corretto).

Perché i calciatori dovrebbero accettare queste norme a senso unico? Fanno bene a protestare, e io applaudo la serrata, pensando non agli Ibrahimovic o agli Eto’o (e a Chiellini e Buffon), ma a coloro che se la sfangano sui campi di provincia, facili prede di presidenti-padroncini che (sia messo agli atti di tutte le anime belle che s’indignano per gli stipendi dei calciatori scioperanti) tanto proletari non mi sembrano.

Perciò, se loro scioperano, io sfilo al loro fianco. Da lavoratore a lavoratore.

P.S.: la Juve in Polonia saluta tutti e viene eliminata con un turno d’anticipo. In Europa League, cinque pareggi in cinque partite, che io leggo in altro modo: neanche una vittoria. Non condivido l’entusiasmo di una parte (abbondante) della tifoseria bianconera che vive questa eliminazione come la liberazione da un impiccio. Chi indossa la maglia della Juve e la porta a spasso per l’Europa deve avere rispetto per la storia di questa leggendaria società. Quei colori e quelle strisce all’estero significano molto di più di quello che qualcuno qui da noi è portato a credere. Il campo pesante è alibi per signorine. Andate a chiedere un parere a Platini e Boniek se la Supercoppa Europea vinta nel 1985 non è stata partita vera, per via della neve. Il dovere della Juve è uno solo: vincere. Se qualcuno è portato a pensare diversamente, ci sono tanti altri club - dalla Samp al Napoli- disposti ad accoglierli a braccia aperte. Tifosi compresi.

domenica 28 novembre 2010

Non costringetemi a invidiare la Roma di Borriello. (A-Team su LaStampa.it)

Manca l’istinto killer. Il Milan s’impantana a Genova con la Samp e non ne approfittiamo per portarci a -4. La Fiorentina si presenta all’Olimpico con una squadra tenuta su con lo scotch e non solo non le diamo il colpo di grazia che si merita, ma rischiamo pure di perdere. Ha ragione Chiellini, sempre più capitano in pectore: “Non è questione di sfortuna”. Purtroppo, no. Ci manca la vocazione del matador.

Che, in soldoni, vuol dire che siamo orfani di uno come Trezeguet, uno che là davanti – come il Wolf di Pulp Fiction - risolve problemi. Uno a cui butti la palla “in the box” e poi puoi dedicarti ad altro che tanto ci pensa lui.

Con tutta l’evidenza degli ultimi tre anni juventini, Iaquinta non fa rima con Wolf. Il gol che si è mangiato davanti a Boruc grida vendetta. Nessuna croce addosso a Vincenzo, per carità. Non è colpa sua, avendo dimostrato di essere più efficace come seconda punta, che parte larga. Peccato però che la Juve non abbia nient’altro che seconde punte, non potendo contare Amauri, l’unico strutturalmente incline a star là davanti (il buttarla dentro, ahinoi, è altra cosa). Vicenzone s’adegua, ma così sprechiamo occasioni d’oro.

Tutto lo spogliatoio è unanime: questi sono due punti persi. Le lacune emerse ieri, sono quelle che conoscevamo già ad agosto: l’esterno destro di difesa, l’assenza di creatività (quando Krasic è spompo e Aquilani non ispirato, è notte buia), un attacco leggero. Ma questo è un campionato dove non ci vuole il Brasile di Pelè e Garrincha per essere competitivi. Con un attaccante vero saremmo da scudetto (ah, nota per i nuovi arrivati, Delneri compreso: sono quattro anni che ogni volta che si pronuncia quella parola a Vinovo o in sede, la partita dopo sono schiaffi. Pregasi tacere).

Sto a forza vincendo i rimpianti per il mancato arrivo di Borriello. Non so quanto potrò resistere. Spero che il direttore Marotta mi aiuti a gennaio. Essere costretto a invidiare la Roma sarebbe davvero un colpo troppo duro.

sabato 27 novembre 2010

L'amico Sergio Ramazzotti ramazza premi

Il mio amico Sergio Ramazzotti ha vinto per la seconda volta in sei edizioni il prestigioso premio giornalistico Enzo Baldoni (in giuria, tra gli altri, Ferruccio De Bortoli, Gianni Riotta, Natalia Aspesi, Maurizio Belpietro, Antonio Di Bella), per il suo libro "Afghanistan 2.0 - 10 storie 1 futuro". Sergio è un reporter vero, di quelli che fanno sognare questa professione. L'ho intervistato per il settimanale Vita. Presto metterò online la bella chiacchierata, da cui traggo questo brano:

Ho seguito gli americani in Afghanistan e in Iraq e li ho visti reagire alle situazioni più tese in modo assai meno professionale di quello che ci si attenderebbe dalla mitica potenza militare. Reazioni sproporzionate, figlie di esaltazioni dell’addestramento dei marines. Loro prima sparano, poi si pongono domande. Di recente, in volo su un Black Hawk, ho visto mitragliare a un riflesso: il pilota non sapeva neppure a chi stesse sparando, poteva essere un pastore, una donna o un bambino”.


giovedì 25 novembre 2010

Segno della croce o segno dei tempi?



Chelsea, Barça, Real, Manchester Utd, ovvero l’aristocrazia d’Europa conquista gli ottavi come da blasone: asfaltando gli avversari. L’Inter, per gli almanacchi la regina d’Europa, s’arrangia con dei modesti pedatori nordici e la vittoria è sofferta al punto da spingere il suo presidente a farsi il segno della croce in eurovisione.

Un’immagine degna di ben altri ringraziamenti ripresa in prima pagina dal giornale rosa non economico. Il che mi impedisce di decidermi se m’intristisce di più la figura calcistica continentale (perché, che lo voglia o no, da campione in carica  l’Inter rappresenta l’Italia all’estero) o lo stato della stampa italiana.

mercoledì 24 novembre 2010

Benítez, tutta colpa della tua mascella





Il cinquantenne allenatore madrileno Rafael Benítez Maudes, detto Rafa, ha vinto due campionati spagnoli con il Valencia (che in totale ne ha vinti sei, di cui tre in periodo bellico e immediatamente post-bellico), la prima e unica Coppa Uefa dello stesso club, una Champions League, una Coppa d’Inghilterra, una Supercoppa Europea e una Community Shield con il Liverpool. Più una Supercoppa italiana con l’Inter.


Serve snocciolare il palmares da top trainer europeo, perché in questi giorni sembra che sulla panchina nerazzurra si sia seduto un pensionato in attesa del tram.

Stasera contro il Twente, seconda in Eredivisie, si gioca il futuro in Italia. La credibilità invece, qui da noi, gliel’hanno già fatta a pezzi dall’interno.

Fin dalla scorsa estate, infatti, il pluri-decorato Rafa è arrivato ad Appiano Gentile con il bollo della terza-quarta scelta. Nei corridoi di via Durini si narra che il suo nome sia stato caldeggiato a un perplessissimo Presidente dal direttore dell’area tecnica, Marco Branca, e dal figlio, in nome di quella gestione famigliare che connota gran parte delle società di calcio italiane.

Ma il patron Massimo (e gossip di palazzo aggiungono pure un’altra componente di spicco della famiglia), orfano del bel Josè, uno con il viso rubizzo e senza mascella squadrata non lo avrebbe voluto mai. Meglio gente come Capello, Hiddink, Spalletti. Ovvero, gli stessi nomi che girano oggi, ma che all’epoca, per un motivo o per l’altro, risposero picche al petroliere milanese, che si trovò a turarsi il naso e a scegliere colui al quale riconosceva l’unico pregio di una rimonta storica e umiliante al Milan.

Purtroppo per Rafa, però, il naso era tappato, ma la bocca è sempre stata liberissima. Una critica dietro l’altra, fino alla sfiducia definitiva del post-Milan: “Il derby si affronta con una mentalità diversa”. Lì Benítez è diventato ufficialmente un ex.

Non un gran tempismo. Perché va bene il Chievo, ma da stasera in poi il calendario sembra disegnato apposta per indicare all’Inter la strada per la resurrezione. Intanto, con una vittoria si regala l’accesso agli ottavi di Champions, con cui affrontare più tranquilli tre turni di campionato senza Eto’o. Ma non è che serva necessariamente il camerunense per battere in casa Parma e Cesena. La trasferta con la Lazio? Un pari ci può stare e, allora, sarebbero sette punti su nove. Che significa rilancio prima dell’appuntamento con la storia: il Mondiale per Club.

Provate a immaginarvi questo quadretto di Natale: Benítez campione del mondo, che attende placido gli scontri diretti in Champions e in piena corsa in campionato.

Idillio? Neanche per sogno, perché comunque andrà stasera, Rafa è un allenatore con la data di scadenza stampata in fronte. Grazie alla strategia del Presidente. E, se non siete Alice nel Paese delle Meraviglie, non abboccherete quando vi diranno che non è premeditata. Per Moratti la colpa di Benítez sta in quella mascella troppo rotonda: purtroppo per lui, a 50 anni, non la si cambia mica più. Neanche da Campioni del Mondo.

martedì 23 novembre 2010

Il bacio del vampiro, peggio di Eto'o

Luis Suarez azzanna Otmal Bakkan, del Psv. Nel giorno dell'Eto'o-Zidane c'è chi riesce a fare pure peggio.

lunedì 22 novembre 2010

Brava Juve, ora scambia Amauri con Eduardo

Il mio consueto "A-Team" sul sito de La Stampa, a commento di Genoa-Juve

Abbiamo trovato il centravanti del futuro. È portoghese, 28 anni, raro fiuto del gol: ha trasformato d’astuzia un innocuo assist di Marchisio e sul magnifico cross di Krasic ha deviato sul paletto più lontano, infilando l’incolpevole Eduardo. Che poi è egli stesso.
Suggerisco un cambio alla pari con Amauri: potenzialmente un affarone anche per il Genoa, visto che l’italo-brasiliano il pallone in porta non lo vede mai e come portiere sarebbe imbattibile.

Al di là delle prodezze di Eduardo, la Juve ha confermato progressi incoraggianti, nonostante un’infermeria da ospedale da campo della Prima Guerra Mondiale. Fa impressione, ma deve anche inorgoglire, incoraggiare e far sperare, portare a casa tre punti schierando contemporaneamente Sorensen, uno che doveva fare il campionato Primavera, e Grosso e Salihamidzic, coppia che fino a qualche giorno fa era addirittura fuori rosa.

Quando riescono queste alchimie, che profumano di magico, è perché l’ambiente è sano e le cose funzionano al meglio. Di questo va dato atto a Delneri che, nonostante una materia prima non di eccelsa qualità, sta modellando la creatura in forma convincente.

Un altro simbolo di questa costante progressione è la luminosa stagione di Felipe Melo. Sollevato da ingrati e inopportuni compiti di regia, fa quello per cui è dotato: recuperare palloni. E il suo apporto è simbiotico al delicato lavoro di Aquilani: cucire i reparti e dare i tempi alla squadra. Che il dio del calcio preservi la salute ad Alberto!

Infine, Krasic. Ormai è quasi inutile soffermarsi sulle sue doti, che non sorprendono più. Mi è piuttosto piaciuto il carattere. Accolto a Marassi come se fosse Hannibal the Cannibal (evidentemente è il solo nella storia ad aver simulato una caduta in area), non ha fatto una piega: ha abbassato il capoccione biondo e ha tirato scemo Mimmo Criscito, nazionale azzurro. Così si reagisce alle ingiustizie.

giovedì 18 novembre 2010

Zlatan. Il gol più bello della mia vita

"Nel 2004 ero all'Ajax e mi cercava la Juve. Van der Vaart non mi parlava più perché diceva che l'avevo infortunato di proposito in allenamento. Per quel motivo, quando entrai in campo contro il NAC Breda, i supporter dell'Ajax mi fischiarono. Rafa (Van der Vaart, ndr.) non giocò. Io sì. E segnai due gol e feci quattro assist".
Che fanno 6, esattamente quelli che segnò l'Ajax (a 2) e uno di quelli Zlatan lo considera il più bello della sua carriera.

"Un difensore mi disse: 'Zlatan, pensavo che fossimo amici'. Mi scusai, perché non m'ero accorto che in passato avevamo giocato assieme. Come reagì Van der Vaart? Non me ne curai. Il giorno dopo firmai per la Juve".

Record. Il Cheval Blanc '47 è il vino più caro del mondo

La stagione delle aste di vino continua a segnare nuovi record. Ieri, all’asta di Christie’s a Ginevra è stata venduta per 224 mila euro (quasi mezzo miliardo delle vecchie lire)una bottiglia di Cheval Blanc del 1947 (una imperial da 6 litri). Probabilmente uno dei migliori vini del mondo dal potenziale di invecchiamento di almeno altri 50 anni. Quello di ieri è il nuovo record mondiale. Anche se la vera medaglia d’oro spetta ancora
allo Chateau Lafite-Rothshild del 1969 (in formato classico da 0,75 litri) battuta per 170 mila euro, ad un asta di Sotheby’s ad Hong Kong meno di un mese fa.
Fonte: Gambero Rosso.

mercoledì 17 novembre 2010

Paola mangia e comincia il tiro al piccione

Una buona notizia coincide con una conferma: dietro allo schermo di Internet non allignano marziani, ma terresti con le loro pance umorali. Circa 76 ore fa eravamo tutti Paola. Ora che, arrivata alla soglia dei 40 chili (più o meno il peso di mia figlia di 9 anni), ha deciso di interrompere lo sciopero della fame, comincia l'inevitabile tiro al piccione. Caricate gli schioppetti e svuotateli subito, che domani ci sarà un nuovo giro di giostra. Senza provare un filo di vergogna.

comunque io è dall'inizio che dico che all'evidente esaurimento della signora non fa certo bene la generalizzata mancanza di neuroni dell'internet; è d'altra parte vero che è lei che si è rivolta all'internet, e infatti è dall'inizio che dico anche: ma non ce l'ha un'amica/un fidanzato/una sorella? - Susan Vance via FF

(Mi scuserà Susan, che non conosco, ma è giusto uno dei tanti esempi possibili.)

martedì 16 novembre 2010

Il caso di Paola e la fine del giornalismo

Il doloroso caso di Paola su Internet lo conoscono tutti (e, per chi si fosse messo solo ora all’ascolto, lo trova riassunto qui). Poteva diventare un caso in grado di favorire un dibattito sul precariato (al di là del caso specifico di Paola), invece è diventato una splendida case history sul mondo del giornalismo attuale.

La crisi dell’editoria è sotto gli occhi di tutti. Crisi da erosione di lettori, crollo della pubblicità e invasione degli altri media. Ma non solo. Il “caso Paola” ha fotografato con grande nitidezza una delle vere mine, che davvero può portare all’estinzione del giornalismo, come lo conoscevamo fino a qualche tempo fa. Ovvero, la totale perdita di percezione che il lavoro giornalistico sia un lavoro specializzato.

Un processo di degrado che, purtroppo, ha ricevuto una brusca accelerazione con lo sviluppo della Rete e degli strumenti social. Dalla nascita dei blog, fino ai network sociali più diffusi, si è diffusa l’idea che basta avere un pubblico a cui rivolgersi per essere dei (potenziali) tecnici della comunicazione. O, ancora peggio, che basta scrivere bene per essere giornalisti. Trascurando invece le prerogative più importanti: che è un mestiere etico, che comporta studio, approfondimento, tecnica, che ha un proprio linguaggio specifico, conoscenze, apprendimenti elaborati attraverso complessi processi di prova ed errore.

Il fatto grave è che è un’idea tanto forte da avere influenzato anche chi produce informazione: gli editori. Il mito del citizen journalism si è propagato a macchia d’olio e, invece, di diventare quello che in realtà è, un ausilio e uno sprone per gli operatori professionali per far meglio, ne è diventato l’alternativa secca.

Da qui, il salto definitivo: se è vero che tutti possono fare i giornalisti, perché pagare e tenere in casa dei professionisti, su cui gravano contratti onerosi e sindacati invadenti? Quanti di noi negli ultimi mesi si son sentiti dire: “Se non ti va bene fare questo, qui fuori c’è la fila di gente che vuol farlo”. Ed è vero. Non solo, è una fila disposta a tutto. A lavorare per pochi soldi, in situazione di precariato costante, senza tutela di nessun tipo sul futuro.

Perché su Internet questa è la regola. Se non ci sei tu, c’è un altro. Gratis. Io mi sono sentito dire da uno dei più grandi editori italiani, per uno dei suoi progetti di punta: “Non voglio giornalisti, mi bastano due o tre ragazzotti che scrivano, facciano le foto, video e mettano in Rete”. Ragazzotti che avrebbe trovato a casse, pagandoli come se le casse le scaricassero al mercato.

I grandi editori sono vissuti dai “tupamaros del web” come il Grande Demone, almeno finché galleggiano nel limbo dei blog e dei social network. Ma appena si apre uno spiraglio per metterci il naso dentro, accettano tutto senza porre condizioni. Per lo più però è gente abilissima a maneggiare il mezzo “tecnicamente”, ma che quasi mai ha un background giornalistico vero.

Voglio dire, l’abbiamo visto bene con Paola. Un praticante al primo mese sa che, prima di formarsi un qualsiasi giudizio, deve incrociare le fonti e, quanto meno, sentire la controparte. Sarebbe bastata una telefonata al Corriere della Sera dopo un minuto per dare alla questione una direzione totalmente diversa, evitando molti guai alla povera Paola. E, assai più probabilmente, il medesimo praticante si sarebbe fatto ispirare un approfondimento più utile e maturo. Che so, capire perché l’Associazione italiana giornalisti (l’Ordine non c’entra nulla) permette agli editori di avere in redazione tanto lavoro sommerso, oppure comprendere il ruolo delle scuole di giornalismo e il loro ruolo, non sempre cristallino, nell’accesso alla professione. O mille altri spunti, ma mai il “Io sono Paola”.

Amo il web, la mia storia lo dimostra, ma proprio per questo m'addolora che il dramma del giornalismo italiano attuale deve molto alla Rete. Non certo perché la carta verrà uccisa da Internet, ma perché troppi improvvisati figli di quest’era digitale hanno contribuito ad abbassare la soglia qualitativa della professione. E, con essa, il potere contrattuale verso gli editori.

Io sono molto preoccupato se per tutti quanti diventa normale pensare, dopo sette anni di precariato, che è più giusto fare uno sciopero della fame, piuttosto che interpellare un tribunale del lavoro.

Perché la fine dei diritti (che è ben altro rispetto al precariato) è ormai entrata sotto pelle a tutti. Nel mondo dell’editoria mai come oggi. Ed è davvero un guaio gigante, perché il fine ultimo di questo mestiere è fondamentale per una società democratica.

Ne soffro, ma devo dar ragione a chi dice che sarà Internet a uccidere il giornalismo come l'abbiamo conosciuto. Purtroppo per tutti noi, però, i motivi saranno ben altri di un uso mirabolante del digitale.

lunedì 15 novembre 2010

I'm back

Dopo quasi un anno, torna Dieci scudetti. Spero di ritrovare tutti i vecchi amici.